L’anno 1086 costituì per Ravello l’inizio di una nuova era: il pontefice Vittore III elevava la città a sede vescovile e il monaco benedettino Orso Papice, abate del cenobio di San Trifone, ne diventava il pastore, muovendo i primi passi di un lungo e glorioso cammino.
La nascita della nuova diocesi, fortemente voluta da Ruggero Borsa, dotata di ampie rendite provenienti da Giovinazzo, Bitonto e Barletta, sanciva il primo passo nel riavvicinamento tra il duca normanno e il pontefice, la cui elezione era stata imposta ai cardinali del conclave dal principe di Capua Giordano Drengot e da Gisulfo II. L’episodio rientrava appieno nella politica feudale perseguita dai normanni che avevano visto nella creazione di nuove diocesi, così come nell’ingrandimento di quelle già esistenti, lo strumento in grado di garantire una stabile organizzazione dei territori conquistati.
La peculiarità della nuova sede consistette nella totale esenzione dall’arcivescovo di Amalfi, grazie al privilegio di dipendere direttamente dalla Santa Sede, conferito da Urbano II con la bolla del 13 ottobre 1090. Esso fu rinnovato dai pontefici successivi e confermato “in perpetuo”, unitamente ai privilegi ricevuti da Ruggero, Guglielmo I e Guglielmo II, con bolla del novembre 1254 di Innocenzo IV.
Nei primi secoli la diocesi conobbe episcopati molto longevi come quello di Costantino Rogadeo (1094 – 1150), cui è legata la costruzione dell’ambone dell’epistola, e di Giovanni Rufolo (1150 – 1209).
Pantaleone Pironti (1210 – 1220), invitato al IV Concilio in Laterano, come attesta un documento del 4 ottobre 1216, chiese un sostegno al clero ravellese che gli assegnò per l’occasione “tres clericos ad honorem vestrum et nostrum”.
Nel 1299 mons. Giovanni Allegri, “assai stimato da Carlo II… cappellano, consigliere ed amico”,ottenne dal sovrano angiono il permesso di impiantare una tintoria (celendra), costruita “vicino al Vescovado”, attiva fino alla peste del 1656. L’esercizio di questa attività, volta alla politura, alla manganatura e alla tintura dei panni di lana, prodotti nei filatoi della città, poteva essere ritenuto un vero e proprio privilegio. Non a caso nel 1429 la regina Giovanna II, su istanza del vescovo Giovanni, si oppose alla richiesta di Coluccio D’Afflitto che intendeva impiantare una celendra nella vicina Scala, vietando espressamente la presenza di “aliqua celendra… nisi duas in civitate Amalfia et Ravelli”.
Come si evince dalle pergamene dell’archivio vescovile, nel corso dei primi secoli la mensa raccolse un ingente patrimonio costituito da castagneti, vigneti, oliveti e selve, ubicati sia nel territorio ravellese che in altre località della Campania e della Puglia. Ad essi si aggiungevano i numerosi lasciti pecuniari contenuti nei testamenti.
L’episcopato riscuoteva inoltre la decima su tutti i legati testamentari e un onorario connesso alla visita delle chiese e si arricchì col tempo di diverse proprietà, donate da esponenti delle nobili famiglie e da semplici fedeli mossi dall’amore per la loro Chiesa.
Capitolo e parroci erano soggetti al cattedratico, costituito fino al 1648 da capponi, a Natale, e da prosciutti, in occasione della Pasqua. I saloni della domus episcopale dovettero ospitare il “prandium de ipsis clericis”, simile a quelli analoghi offerti dai prelati di Amalfi e di Salerno, che doveva comprendere spalle di maiale arrostite, condite con olio, cavoli e zucchine, caciocavallo, pesci salati, “umbula” (pane dolce con uova), “mustaczoli” (piccoli dolci speziati a forma di rombo) e vino “bono et odorifero”. Con passare del tempo, però, il Capitolo rinunciò al pranzo e il cattedratico fu pagato in denaro.
L’episcopio possedeva anche lo “jus calcarie”, il diritto sulle fornaci di calce della città (le “calcare”), lo “jus macelli”, il censo sul macello degli animali, e lo “jus pyscandi et prohibendi”, la decima sul pescato di Castiglione (l’antico Castrum Lionis), contro cui, senza successo, avanzò pretesa di possesso la municipalità di Atrani nel 1779. Su tutte le merci, acquistate o vendute, vigeva lo “jus plateatico”, concesso nel 1098 dal Doge amalfitano Marino Sebaste a mons. Costantino Rogadeo. Nella Piazza di Sant’Adiutore, la più antica piazza della città, la “Ravellensis Ecclesia” possedeva alcune botteghe, come dimostrano un lascito del 1172 di Leo e Giovanni Rogadeo e una vendita operata da Giacomo, figlio di Sergio, in favore della Congregazione del Clero nel 1198.
Proprietà della mensa era anche l’acquedotto dell’“Aqua Sabucana”,per mezzo del quale le fresche acque, provenienti dalla località di Sambuco, giungevano alla fontana pubblica situata in “Platea Sancti Adiutoris”. Usurpata dall’ “Università di Ravello” (la municipalità) e recuperata nel 1574, agli inizi del Seicento l’ “Aqua” fu data in concessione a numerosi cittadini, che in tal modo potevano irrigare, ad ore stabilite, i giardini e le vigne.
Ravello vantò paterni ed operosi pastori come mons. Paolo Fusco: “ ei ben per tempo vestì l’abito clericale, e quindi divenne dottissimo in ambe le leggi, nonché forte propugnatore delle ragioni chiesastiche e gran cultore delle antichità patrie”. La sua dettagliata Visita Pastorale, iniziata il 16 settembre 1577, è una fonte preziosa per conoscere lo stato in cui versava la Chiesa ravellese del XVI sec. “Sollecito nel promuovere la disciplina ecclesiastica egli die’ principio al suo ministero con visitare le chiese della sua diocesi, e quindi due anni dopo vi celebrò il Sinodo Diocesano”.
Nel 1603 Clemente VIII con “Motu Proprio” unì le diocesi di Ravello e Scala “aeque principaliter in persona episcopi”, affidandole così ad un solo pastore, dipendente dalla Santa Sede come vescovo di Ravello, ma soggetto al Metropolita di Amalfi per quanto riguardava la sede suffraganea di Scala.
Il vescovo aveva due vicari, due capitoli e due curie in considerazione della differente giurisdizione. Nel 1635 Onofrio Del Verme nominò vicario di Scala Don Francesco Antonio D’Urso, già vicario a Ravello, provocando la netta opposizione del capitolo scalese che ritenne quella nomina in contrasto con quanto stabilito all’atto dell’unificazione. Altra controversia fu dovuta all’accesa rivalità tra le città, che desideravano avere la precedenza all’atto dell’insediamento, tradizionalmente salutato da suoni di campane e spari di mortaretti.
Pertanto, a partire dall’episcopato di mons. Saggese, i prelati cominciarono a prendere possesso delle sedi mediante due procuratori: all’ora concordata i canonici si presentavano ai rispettivi capitoli con le bolle ed espletavano tutte le pratiche di insediamento. Così il 13 maggio 1707 mons. Giuseppe Maria Perrimezzi si insediò secondo questa procedura “con suono delle campane di tutte le chiese, sparo di mortaletti e canto del Te Deum …, et in un istante si è sonato et sparato in questa ed in quella città il tutto per togliere controversie circa il possesso delle due Chiese..”.
A partire dal XVII secolo la “Maior Ravellensis Ecclesia” conobbe, purtroppo, un inarrestabile declino dovuto a pestilenze, carestie e terremoti, che gettarono la diocesi in uno stato di degrado e di arretratezza sociale, e culturale. La cattedrale e il palazzo vescovile versavano in condizioni pietose cui il vescovado non poteva far fronte per l’esiguità della mensa, il cui reddito ammontava a 600 ducati. “La città di Ravello ha novanta fuochi e ottocentoventi anime. Oltre i dodici canonici della cattedrale, la città conta tredici sacerdoti semplici, dodici chierici e otto diaconi”.
Nel 1818 il vescovado, come altre diocesi minori, veniva soppresso per “l’esiguità delle rendite e l’oscurità dei luoghi”con la Bolla “De utiliori Dominicae vineae”, in seguito al Concordato di Terracina, stipulato tra Papa Pio VII e Ferdinando I.
“L’ora della completa decadenza di questa illustre città era suonata”. I ravellesi cercarono in tutti i modi di ottenere una dispensa: il 4 giugno una delegazione del Capitolo, disposto a rinunciare a tutte le rendite per accrescere il patrimonio della mensa, si recò a Napoli al fine di chiedere la permanenza del vescovo. A nulla valsero tali sforzi, “l’ultimo colpo per Ravello venne e fu l’abolizione del Vescovado”, la città, dopo 732 anni, tornava sotto la giurisdizione dell’Arcidiocesi di Amalfi.
A testimoniare il glorioso passato restavano ormai soltanto i monumenti e le pergamene dell’Archivio Vescovile, che un silenzio odoroso d’incenso, divenutone il geloso custode, avrebbe preservato dall’inesorabile trascorrere del tempo.
© L.Buonocore, Il Duomo di Ravello – Profilo storico-artistico di un monumento, 2004
© G.Imperato, Ravello nella storia civile e religiosa, 1990